Sottili differenze
A Bucarest il cielo è ampio e l’orizzonte largo. Il viale che collega Teatrul Odeon e l’Istituto italiano di cultura è alberato e lunghissimo. Una linea retta tra Romania e Italia.
Il vecchio continente. Con tutta la sua bellezza maestosa e la decadenza da passato regime.
I balconi da cui parlava il dittatore e quei negozi che sono uguali dappertutto – si sa che l’hamburger dove lo mangi lo mangi ha sempre lo stesso sapore.
Alla fine, siamo tutti dallo stesso lato di mondo. Un generico occidente in cui il tempo collassa e le distanze si accorciano. I confini si possono spostare all’infinito. Un millimetro alla volta.
E così quello che ho pensato e scritto travalica i limiti delle mie parole e diventa suono altro.
Solo di me è incredibilmente familiare in questa lingua aspra e antica, tra italiano e francese, che tanto somiglia alla nostra, ma Eva, che mi ha accompagnato a scoprire la città ed è stata la mia voce per tutti i giorni a Bucarest, mi redarguisce e si raccomanda: “Non dire troppe volte magari, in rumeno significa asino. Qualcuno si potrebbe offendere.”
Non tutte le assonanze danno concordanza di significato. I confini, è vero, sono liquidi, ma importanti.
Bisogna fare attenzione.
Chissà da dove viene l’espressione seria che hanno qui.
Mi fanno domande con lo sguardo curioso, mi offrono un bicchiere prima di cena, raccontano che da nord a sud i giovani lasciano le loro case, vanno a lavorare altrove, che nei piccoli centri rimangono solo gli anziani, ma anche quelli, presto o tardi, se ne vanno. Come accade da noi, in effetti.
E Bucarest mi appare così. Tra passato e futuro, in un presente in cui i punti cardinali si confondono.
Un presente senza ovest e senza est.
Magari.
Magari lo fosse del tutto.