FRANCESCA GAROLLA 900-002

Il teatro non è obbligato ad analizzare, a fornire numeri, cronologie o statistiche. Il teatro, per me, traduce, non enumera e non spiega. E non parlo di traduzione letterale, parlo di metafora, di visione, di punto di vista. Scrivere per il teatro è per me come guardare l’orizzonte dallo spioncino di una porta. Non posso vedere tutto, non devo vedere tutto, ma da quello che scorgo posso immaginare infiniti mondi possibili. Ed è proprio in quella moltiplicazione di possibilità, e nel colloquio serrato e silenzioso con lo spettatore, che io trovo rivoluzioni di senso. E paesaggi che non ho mai visto.

2015/2016 – Fabulamundi involved Francesca Garolla in activities in Nancy-Lorraine and in Bucharest.

Varese, 1981

Dopo aver frequentato il corso di Filosofia all’Università di Milano, si diploma in Regia all’Accademia d’Arte Drammatica Paolo Grassi. Nel 2004 inizia a collaborare con Teatro i di Milano e diventa la drammaturga della compagnia e parte della commissione artistica. È stata drammaturga, assistente alla regia e attrice in “Prima della pensione” di Thomas Bernhard, “Dare al Buio” di Letizia Russo, “Incendi” di Wajdi Mouawad, “Hilda” di Marie Ndyaie e “Lotta di negro e cani” di Bernard-Marie Koltès. È stata regista e drammaturga in “Elettra. Quel che rimane” tratto da “Elettra” di M. Yourcenar (2006) e di “Non dirlo a nessuno” tratto da “Der Gute Gott von Manhattan” di Ingeborg Bachmann (2008). Nel 2010 ha scritto “N.N.”, selezionato, tradotto e presentato al Le Théatre Scène Nationale de Saint–Nazaire, il Festival Ring / La Manifacture – CDN Nancy–Lorraine e al Théatre National Populaire di Villeurbanne La Colline per Face à Face – Parole d’Italia per scene di Francia. Nel 2013 scrive “Solo di me – se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea” che è stato tradotto per una pubblicazione in Repubblica Ceca. L’anteprima di “Non correre Amleto”, un lavoro in divenire, è stata premiata al NEXT production prize (2014). In aggiunta alla sua partecipazione ai progetti culturali di Teatro i, ha sviluppato un forte interesse verso la ricerca drammaturgica e sta approfondendo campi di sperimentazione autonoma in merito a espressioni di scrittura teatrale e mise en scene.

NON CORRERE AMLETO
29 maggio 1993, Ex-Jugoslavia, guerra. Agguato ad un convoglio di aiuti umanitari nei pressi di una strada chiamata Diamond Route.
Tre persone vengono uccise e due riescono a fuggire.
Tre morti e due vivi.
Questi sono i fatti.
Una delle vittime era mio zio ed io avevo meno di dodici anni quando è morto.
Lui non cercò di scappare, rimase fermo, immobile, e fu colpito da tre pallottole.
Ritrovarono il corpo un paio di giorni dopo. Senza le scarpe.
Chissà perché.
La morte, che non ama le formalità, lo aveva lasciato scalzo. Una cosa ridicola.
Una delle sue sorelle raccontava ai funerali di averlo sognato, lui diceva: “Bastava che gli altri non si mettessero a correre e sarebbe andato tutto bene. Bastava quello. Solo quello.
Bastava non correre, per rimanere vivi.”
La scrittura prende a pretesto questo episodio, elemento autobiografico e fatto di cronaca (o di storia), cercando, attraverso due monologhi paralleli, di trovare un senso a qualcosa che senso non ha: il dolore.
E la morte appare per quello che è: stupida e ridicola.
Ma di quale morte sto realmente parlando?  La sua? La mia? La nostra? Ciascuno di noi ha la sua morte. 

TU ES LIBRE
Haner è partita per la Siria. Si è unita a Daesh. Ha aderito ad un sistema sociale, culturale, etico del tutto differente da quello a cui noi apparteniamo.
Ma Haner non ha origini mediorientali, non è un’immigrata, non è un’emarginata, non è stata manipolata e non è pazza. Haner è una giovane donna francese che può fare, ed essere, tutto ciò che vuole.
Haner è libera di scegliere e mette in atto la propria libertà. Una libertà feroce, che non si fa controllare, definire o interpretare, che va oltre il valore della morte e della vita. Una improbabile, oscena, incredibile libertà.
Possiamo comprendere il perché della scelta di Haner? Esiste questo perché? Sappiamo accettare una libertà per cui la vita non è un valore? Una libertà per cui l’individuo non è bene prezioso da difendere, ma solo funzione o frammento di una comunità? Una libertà che uccide?
Solo sette giorni, sette come sette sono i giorni della creazione nella Bibbia e nel Corano, e solo il tempo dello spettacolo per capirlo.
Eppure, se siamo davvero liberi, dovremmo saper tollerare la libertà dell’altro. Qualunque essa sia.

N.N.
In scena due sole figure. Un padre e un figlio. L’azione è il loro colloquio, un colloquio apparente, un flusso di parole che attraversa entrambi ma che potrebbe appartenere ad uno solo. Uno più uno è davvero uguale a uno.
I due si incontrano in un frammento di tragedia: unità di tempo, di luogo e di azione.
Si incontrano nello spazio tempo di un lutto non ancora elaborato: nell’attesa di un funerale, nella pausa prima della tumulazione, nell’intervallo in cui si veglia una bara, aperta su un volto che è già altro dalla persona amata.
È l’attimo subito successivo al dramma, in cui il tempo interrompe il suo fluire lineare o circolare e forma una bolla di non respiro e senza lacrime.
E in tutto questo la Storia c’è, anche se sembra perduta. Non risuona più universale, come nelle parole dei padri, ma è eco indistinta alla quale sono stati tolti potenza e nitore. Frasi roboanti e volutamente vuote che nominano la guerra eppure non sanno rappresentarla, nomi che richiamano volti, strade e piazze. Un passato che diventa presente e col presente si confonde. Padre e figlio emergono in questo universo frammentato e monologante, un universo che disegna un tempo che non si riesce ad afferrare né a definire.
Gli avvenimentiI successivi al 1968, fino a gran parte degli anni ’70,  hanno sancito una frattura sia da un punto di vista storico che antropologico. La generazione che partecipò attivamente al movimento di quegli anni ha in qualche modo voluto “uccidere” i propri genitori rifiutandone la legge.
Il testo vuole indagare cosa questa generazione abbia lasciato ai propri figli: non li ha in qualche modo a sua volta divorati, lasciandoli privi di un orizzonte definito in cui vivere e pianificare il proprio futuro?
Un’analisi del presente condotta attraverso gli occhi di una generazione, nata negli anni ottanta, addirittura negli anni novanta, che non ha visto, né  tanto meno ha vissuto, il fervore della storia recente, eppure ne porta le invisibili ferite. Figli che faticano ad uccidere metaforicamente i propri genitori e , incapaci di elaborare il lutto, non riescono a diventare adulti e a riappacificarsi con la storia.

SOLO DI ME. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea
Tre donne che potrebbero essere una sola, una figlia, una moglie, una madre: Ifigenia, Alcesti, Medea, in una riscrittura nella quale si incontrano e per la prima volta dialogano. La tragedia irrompe attraverso queste voci, che si fanno exempla. Tre modi di essere nel mondo, tre esperienze accumunate da un unico atto, il sacrificio.
Se è vero che l’uomo è animale sociale e che, in particolare, le donne sembrano definirsi meglio in relazione all’altro, in qualità di figlia di, compagna di o madre di – cosa non vera per il cosiddetto maschio, fiero e certo del suo posizionamento nel mondo – è pur vero che rimane costante la ricerca di una autonoma affermazione di sé.
Ifigenia cerca nella morte per mano paterna la possibilità di diventare eroina, Alcesti trova nella rinuncia a se stessa la possibilità di essere santa e Medea, con l’omicidio dei figli, può farsi dea, che decide di vita e di morte.
Al di là dell’essere per qualcuno o per qualcosa, le donne desiderano essere, semplicemente.
C’è qualcosa di ridondante e misterioso in tutte quelle riflessioni che hanno come fulcro la femminilità che, non a caso, è stata centro e motore di ampia letteratura e saggistica, poesia e teatro.
Se le donne sono state spesso in minoranza nel tentativo di realizzare la loro potenzialità creativa altrettanto spesso sono state protagoniste epocali e indiscusse dell’arte di altri.
I personaggi femminili segnano il tempo in cui nascono, da Tolstoij a Flaubert, uno stuolo di donne ha riempito lo spazio scenico, le librerie e la nostra memoria di lettori e spettatori.
Se con difficoltà hanno conquistato il loro essere soggetto nella realtà, le donne, con estrema e complementare facilità, sono state oggetto principe della fiction.