Quando scrivo, di solito rifletto sul motivo per cui ho scelto il mezzo teatrale. Rispetto ad altre forme d’arte, il teatro ha un vantaggio: è l’unico che permette allo spettatore di sperimentare nella dimensione del qui ed ora lo scontro tra le parole che descrivono il mondo, l’immagine del mondo nella nostra mente e nel mondo creato sul palco. Solo il teatro può illuminare il rapporto tra loghi, idee e materia, mostrando per esempio i limiti del linguaggio mentre cerchiamo di descrivere logicamente la realtà come si rivela davanti a noi sul palco. A mio parere, il teatro è di questo tipo di esperienza, ed è per questo che scrivo.
August 2015 – Fabulamundi involved Davide Carnevali in activities in Pont-à-Mousson and Rome.
Con Variazioni sul modello di Kraepelin, Davide Carnevali (Milano, 1981) si è aggiudicato il Premio “Theatertext als Hörspiel” al Theatertreffen di Berlino e il “Premio Marisa Fabbri” nel 2009, e il “Prix de les Journées de Lyon des auteurs” nel 2012. Con Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione ma nessuno se ne accorse ha ricevuto il “Premio Borrello alla nuova drammaturgia” nel 2011. La prima parte del “Dittico dell’Europa”, Sweet Home Europa, ha debuttato nel 2012 con una produzione del Schauspielhaus Bochum, e in forma di radiodramma per la Deutschlandradio Kultur. Nel 2013 Carnevali è stato incluso tra i 35 autori più rappresentativi dello Stückemarkt Theatertreffen di Berlino, che per l’occasione ha incaricato e sovvenzionato la scrittura della seconda parte del “Dittico”, Goodbye Europa. Lost Words. Nello stesso anno ha vinto il “Premio Riccione per il Teatro” con Ritratto di donna araba che guarda il mare. Nel 2016 ha ricevuto una Menzione d’Onore al Premio “Platea” per Menelao.
Si dottora in Teoria del Teatro presso la Universitat Autònoma de Barcelona, dopo un periodo di studi presso la Freie Universität Berlin. Insegna Teoria Teatrale e Drammaturgia presso la Civica Scuola Paolo Grassi di Milano e tiene workshop presso diversi teatri e istituzioni. È membro della Commissione di Drammaturgia del Teatro Nazionale della Catalogna ed è consulente per IT Festival di Teatro Indipendente di Milano; fa farte della redazione delle riviste teatrali “(Pausa.)” e “Estudis Escènics”, e scrive per riviste italiane e internazionali sul teatro tedesco e Iberoamericano. È anche redattore e traduce da catalano, francese e spagnolo. Nel 2017 ha pubblicato il saggio Forma dramática y representación del mundo en el teatro europeo contemporáneo per la Casa editrice messicana Paso de Gato. I suoi spettacoli sono stati presentati in varie stagioni di teatri e di festival internazionali e sono stati tradotti in catalano, inglese, estone, francese, tedesco, greco, ungherese, polacco, portoghese, rumeno, russo e spagnolo.
SWEET HOME EUROPA
Dopo le divisioni del secolo XX, nel vecchio continente il grande progetto politico del secolo XXI è quello di costruire la Grande Casa Europea. In un discorso davanti al Consiglio d’Europa, il 5 ottobre 1998, Michail Gorbaciov auspicava «un ampio spazio di cooperazione in cui tutti si sentiranno a proprio agio, come se si trovassero nella propria casa». L’immagine della casa è ripresa anche da Benedetto XVI in un discorso davanti al rappresentante della Commissione delle Comunità Europee presso la Santa Sede, del 19 ottobre 2009, in cui parlava di un territorio che è «più di un continente, una “casa spirituale”», rivendicando le radici cristiane dell’Europa. La domanda è: chi potrà vivere in questa casa?
Storicamente il continente europeo nasce e si popola in seguito a grandi migrazioni provenienti da oriente –da quelle dei popoli indoeuropei alle invasioni barbariche- che hanno posto le basi per le nostre tradizioni culturali, commerciali, linguistiche. E non è un caso che anche Cristianesimo, Ebraismo e Islam -le tre grandi religioni monoteiste che hanno fatto la storia di questo continente- si rifacciano a una tradizione biblica che si apre con la Genesi, il racconto di una cacciata, di uno spostamento, di un invito a lasciare la propria terra per trasferirsi in un’altra. Eppure oggigiorno l’Europa ha un grave problema nel riconoscere il diritto all’immigrazione e ha una grande paura delle identità culturali e religiose differenti dalla sua.
Questo è un testo sul problema dell’integrazione. Sulla possibilità e la capacità di accettare l’estraneo, lo straniero, l’altro.
Un Uomo, una Donna e un Altro uomo sono i protagonisti di differenti storie particolari e allo stesso tempo di una stessa storia collettiva -quella di una famiglia, di un popolo, dell’umanità intera- che, nel continuo incontro e scontro tra civiltà, sembra ripetersi in eterno.
Sull’Altro uomo ricade il peso delle generazioni precedenti e quelle successive, il peso di una tradizione secondo la quale chi non può vivere nella propria terra ne cerca un’altra in cui fondare una casa e una famiglia, per un nuovo posto in una nuova società.
L’Uomo che nella propria comunità occupa invece una posizione di potere -politico, economico, culturale- farà di tutto per mantenere il privilegio di cui gode ed esercitarlo a suo vantaggio, a discapito del debole.
La Donna, dal canto suo, cercherà sempre il suo ruolo in una società occidentale che, mentre critica quella orientale, tarda ancora a riconoscere la reale parità tra i sessi.
A quasi vent’anni dalla nascita della UE, la Grande Casa Europea è un «cantiere ancora aperto», come lo definiva Gorbaciov. Ma in che direzione stanno andando i lavori? Stiamo costruendo uno spazio privilegiato per la garanzia dei diritti umani, o stiamo solo recintando una proprietà privata per vietarne l’accesso a chi non è desiderato? Questa Casa sarà una casa accogliente? A chi sarà davvero disposta ad aprire le sue porte?
RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE
Noi Europei tendiamo spesso a definire i paesi dell’area mediterranea del Nord Africa “arabi”, così come abbiamo chiamato “primavera araba” le rivoluzioni progressiste di qualche anno fa in Tunisia, Algeria, Libia, Egitto. In realtà quella araba è una forma di dominazione culturale, che ha imposto nei secoli a questi paesi la lingua veicolare, declinata nelle sue varianti regionali, e una religione di stato. Nello stesso modo in cui, successivamente, la Francia ha imposto una lingua strettamente legata a un modello sociale, giuridico e soprattutto economico. Ma oltre all’arabo e al francese le popolazioni che abitano queste aree hanno parlato, e in molti casi conservano ancora, una lingua propria, più antica. Attraverso cui mantengono una propria identità culturale, pre-araba e pre-coloniale.
Il termine “arabo” applicato a questo contesto geopolitico è quindi frutto di un errore. Il titolo dell’opera riflette questo errore, e in qualche modo la storia stessa, vista dal punto di vista di un uomo europeo, ammette la sua ignoranza e mostra l’approccio superficiale della prospettiva occidentale sulla questione nordafricana. Il problema del linguaggio è essenziale. L’Europa ha affermato la sua superiorità non solo imponendo una lingua e un modello culturale, ma anche costringendo la cultura dominata in una determinata definizione linguistica.
Il rapporto tra le due sponde del Mediterraneo è metaforizzato qui nell’incontro tra un uomo europeo e una donna nordafricana. L’uomo si avvicina alla donna spinto da una curiosità che vedrà soddisfatta; la donna si avvicina all’uomo mossa da una speranza che non si realizzerà. Questo gesto di avvicinamento ha per ogni personaggio un valore differente e cambia il destino dei due protagonisti e dei fratelli della donna. L’uomo, l’europeo, è abituato a ottenere facilmente ciò che vuole, senza pensare al valore reale delle sue azioni e alle conseguenze del suo comportamento. Dal canto suo, la donna è attratta da ciò che l’uomo europeo rappresenta: una via di fuga possibile dal mondo in cui è nata e cresciuta. Ma è legittima questa fuga? O non ricade piuttosto anche la donna nello stesso errore di valutazione, nell’immaginare l’Europa come un posto migliore – sotto tutti i punti di vista – di quello in cui vive?
Tra i personaggi si apre una lotta che è innanzitutto verbale, e che sottolinea la distanza tra esseri umani, culture e visioni del mondo differenti, a partire proprio dalla distanza linguistica. Il testo cerca questa tensione tra parola e immagine, tra detto e indicibile, tra il discorso chiaro e il ritmo sospeso della poesia. Per salvaguardare non solo quello che la parola dice, ma anche quello che non dice; non solo quello che è già scritto, ma anche quello che lo spettatore può immaginare. Quanto peso può avere un’azione? Cosa significa davvero un gesto? Qual è il senso reale di una parola?
Questo è un testo sulla rinuncia ad approfondire la conoscenza dell’altro, dell’estraneo e dunque sull’incapacità di accettare e colmare le differenze culturali che dividono due mondi da sempre a stretto contatto, e da sempre così lontani. Un testo sulla sottile linea che separa l’amore e l’innamoramento, il giocare e il prendersi gioco, la seduzione e la dominazione, il donare e il desiderio di possesso.
Ma anche un testo sull’incomprensione e l’errore che commettiamo quando pensiamo di conoscere qualcosa senza aver voluto, prima, accostarci veramente ad essa. E quindi senza averne compreso il reale valore.
MALEDUCAZIONE TRANSIBERIANA
Maleducazione transiberiana è un progetto sul rapporto tra pedagogia e spettacolo. E in particolare sull’influenza che la televisione e i mass media esercitano sull’immaginario comune a partire dall’infanzia, attraverso le trasmissioni per ragazzi e la programmazione dei cartoni; fino al ruolo che giocano nelle politiche di educazione e di produzione artistica nella società contemporanea.
Si parlerà di fiabe, cartoni animati, film, canzoni, musical, filastrocche, poesie e in generale di quelle narrazioni che appartengono all’universo del bambino e che influenzano la sua visione del mondo. Andremo da Mary Poppins a Peppa Pig, da una rilettura postmoderna di Cenerentola a un’indagine socioeconomica sulle condizioni lavorative di Holly e Benji; discuteremo con i bambini dei loro sogni e desideri per il futuro, e ci confronteremo con differenti punti di vista sulla pedagogia secondo Fourier, Marx, Brecht e Benjamin, per giungere infine alle politiche di de-regolarizzazione delle due presidenze di Ronald Reagan, che hanno aperto definitivamente la strada al marketing per l’infanzia negli Stati Uniti.
Lo spettacolo propone così un mix di differenti codici estetici, che comprendono il dialogo a quarta parete e il monologo diretto al pubblico, la proiezione video e il coinvolgimento dello spettatore nel dibattito. Si tratta, in definitiva, di mettere in mostra – e in ridicolo – i meccanismi di costruzione delle narrazioni e il modo in cui esse sono utilizzate per manipolare il comportamento del bambino, determinando il suo ruolo come produttore e consumatore nell’economia di mercato.
Dobbiamo sempre ricordare che le storie non raccontano mai la realtà; esse, piuttosto, la mediano in un discorso costruito su un preciso punto di vista. Il bambino, la cui personalità è ancora in costruzione e la cui mente è più vulnerabile alle strategie di comunicazione, è il ricettore più esposto ai rischi della manipolazione del linguaggio.
Il teatro è il territorio ideale per smascherare l’artificialità delle narrazioni e la loro tendenza a restituire solo un punto di vista sulla realtà. Attraverso il teatro possiamo dunque, in un certo senso, restituire la realtà delle cose all’esperienza e salvarla dagli usi impropri del linguaggio. Il tutto, sempre con molta ironia.
(Lost Words)
All’inizio del secolo XXI, il grande progetto di una Europa unita è posto seriamente in discussione dal fallimento dell’unione monetaria e dalle divergenze in materia di politica economica dei differenti Paesi. La crisi degli ultimi anni ha messo in dubbio un modello di stato sociale e il concetto stesso di socialdemocrazia; i nazionalismi risorgono e viene perdendosi il senso di appartenenza a una comunità. Esiste un futuro per l’Unione europea? Cosa aspetta le nuove generazioni, e cosa ci si aspetta da loro? Quale società auspichiamo per i nostri figli, e quale stiamo per loro effettivamente preparando?
Uomini, donne, animali e oggetti sono i protagonisti di quest’opera, in cui il discorso perde la sua funzione razionalizzante e mostra, al contrario, la sua inefficacia nel descrivere il mondo, che si apre ora ai nostri occhi come una realtà informe. Gli esseri umani si oggettivizzano, gli animali si antropomorfizzano e gli oggetti si animano; la natura segue un corso aberrante, nel senso etimologico del termine: devia dal percorso che logicamente dovrebbe seguire, abbandona la retta via e si perde nel caos. In tutto questo, la componente linguistica gioca un ruolo fondamentale, poiché cerca essa stessa di sfuggire alla logica, rifugiandosi nell’immaginario e nel poetico. Lo scenario è apocalittico e l’apocalisse è quella del linguaggio: la rivelazione della propria insufficienza e la manifestazione di tutto ciò che le parole non possono descrivere.
Con questo testo si chiude il Dittico dell’Europa. Sweet Home Europa era un lavoro sulla nascita dell’Europa. Rileggendo i miti biblici contenuti nei libri della Genesi e dell’Esodo, parlava di emigrazione e immigrazione, scontro di culture e formazione dell’identità, ma soprattutto della paura dell’ “altro”, di ciò che non si conosce.
(Lost Words) è invece un’opera sul declino dell’Europa. Recupera dai Vangeli e dall’Apocalisse di Giovanni un sostrato mitico e una simbologia che permettono di interpretare il vincolo profondo tra il sistema di mercato e una precisa visione del mondo che si sono imposti come egemonici nella società occidentale contemporanea. Entrambi basati sulla necessità di attribuire un valore (economico, linguistico) univoco e definibile a ogni elemento, in un sistema stabile capace di imporre un ordine alla realtà. E, proprio per questo motivo, entrambi incapaci di comprenderla nella sua totalità.
(Lost Words) è stato scritto grazie al supporto del Theatertreffen Berlin, che nell’ambito del Jubiläum des Stückemarktes 2013 ha commissionato agli autori invitati un’opera breve sul tema Verfall und Untergang der westlichen Zivilisation (Declino e tramonto della società occidentale).
Variazioni sul modello di Kraepelin (o il campo semantico dei conigli in umido)
Emil Kraepelin è lo psichiatra tedesco che al principio del secolo scorso denominò “Morbo di Alzheimer” la forma di dementia senilis da lui scoperta e teorizzata insieme al collega Alois Alzheimer.
Eppure questo non è propriamente un testo sul problema dell’Alzheimer.
Questo è un testo sul problema della memoria, sull’identità e sulla possibilità di ricostruire il passato. Un testo che sfida la ricostruzione della storia.
La storia personale di un uomo che sta smarrendo la traccia della propria vita, e dunque la propria identità.
La storia collettiva di una nazione, l’Europa, che nella memoria delle sue guerre e nell’attualità dei suoi mutamenti politici sta ancora cercando la definizione di se stessa. Perché anche l’identità di una nazione, come quella del singolo, si struttura sulla capacità di ricordare, di dotare di coerenza la narrazione degli eventi che la interessano.
Ma anche la storia intesa come nucleo narrativo dell’opera, la cronologia dei fatti che costituiscono lo sviluppo del testo. Perché questo è un testo che degenera nello stesso modo in cui degenera la memoria di chi soffre di Alzheimer.
Chi soffre un processo degenerativo chiama le persone con nomi differenti. Cambia il loro ruolo, il ruolo che hanno ricoperto nella sua vita. Sconvolge la funzione degli oggetti. Annulla lo scorrere degli anni. Nella sua mente, dettagli reali e elementi immaginari si fondono e si confondono. A chi si riferisce quando chiama una persona con il nome di un’altra persona? Io sono ancora “io”, per lui? Cosa intende, quando tenta di spiegare un concetto la cui espressione gli sfugge? In che modo esiste ancora questo concetto, per lui? Cosa significa una parola? E cosa vuole dire?
Se i rapporti tra significante, significato e referente perdono la loro forza, i confini del campo semantico di un termine sfumano, permettendo una combinazione di libere associazioni che sconvolge l’organizzazione del mondo attraverso le parole. Cambiando il rapporto dell’individuo con la realtà, a scapito del razionale, a vantaggio dell’immaginario.
Come la percezione della realtà nei processi degenerativi cerebrali, questo testo è instabile. Come i ricordi di chi soffre i processi degenerativi cerebrali, i frammenti che compongono questo testo non devono per forza organizzarsi secondo i principi di causalità e linearità cronologica. Possono cambiare la propria collocazione, e associarsi secondo modalità differenti. Possono mandarsi richiami, e fare riferimento l’uno all’altro. Oppure possono contraddirsi. O sovrapporsi. Possono rivendicare la propria presenza, o sfumare nell’incertezza. Possono interrompersi bruscamente. O ripetersi con impercettibili variazioni.
In questo modo, sia i tre uomini nel testo, sia gli spettatori, sono chiamati a formulare ipotesi di ricostruzione della storia, in un gioco costante di interpretazioni, di attribuzioni di senso. Alla ricerca di una verità che – per sua natura – sarà sempre ambigua come il dubbio del ricordo, precaria come l’esercizio della memoria.
(Confessione di un ex presidente che ha portato il suo paese sull’orlo della crisi)
In Confessione (2012) un ex presidente parla al suo popolo dicendo tutto quello che non ha voluto, potuto, o saputo dire durante il suo mandato. L’ex presidente si rivolge al pubblico come se si stesse rivolgendo alla corte di un tribunale popolare che lo deve giudicare. Lo spettatore si sentirà quindi letteralmente chiamato in causa, invitato a svolgere il compito che ogni evento teatrale implicitamente o esplicitamente gli richiede: l’esercizio dello spirito critico. In questo senso il teatro torna a essere politico: teatro per la polis, la comunità.
Confessione è un’opera sull’uso del linguaggio, e soprattutto sull’uso che il potere fa del linguaggio, nel creare un’immagine della realtà che sottilmente si impone sulle altre, e diviene immagine egemonica, e divenendo egemonica giustifica il proprio uso (o meglio: l’uso improprio) del linguaggio.